Tre consigli per le imprese che intendono crescere: non pensare al prodotto, non puntare sulla tecnologia, non cercare l’innovazione.

Jul 10, 2019

Nelle ultime settimane ho fatto attenzione a due gustose notizie riguardanti l’innovazione; diciamo così. Dico gustose perché provengono da i due leader riconosciuti del mercato del fast-food: McDonald e Burger King.

Burger King

È un problema anche in Italia, lo è ancora di più in America e in altre parti del mondo: il traffico. Si calcola che per andare al lavoro e tornare a casa, nelle città più caotiche, si perdono oltre cinque ore al giorno. Cinque ore in cui non si può fare altro che smanettare sul proprio smartphone, scorrere il feed di questo o quel social… E perché non mangiare?

Un ragionamento di questo tipo è alla base del progetto pilota ideato da Burger King, per adesso testato a Città del Messico, che permette di ricevere il proprio panino proprio mentre si è bloccati nel traffico.
Il sistema funziona grazie alla tecnologia – lavora con Waze che permette di conoscere i punti con più alto traffico e localizzare le vetture – e riesce a consegnare tempestivamente le ordinazioni.
Probabilmente non è un’innovazione così salutare ma per adesso sta rispondendo più che bene: nella prima settimana del test, Burger King ha registrato un aumento del 63% degli ordini e un download di 44 volte della sua app.

Mc Donald

L’idea di Mc Donald è, se possibile, ancora più rivoluzionaria – il che non significa chiaramente funzionale.
Uno spot presenta la nuova tovaglia da pic nic che permette di inquadrare un qr code, accedere all’app e potere ordinare il proprio pasto che verrà consegnato in poco tempo sul prato in cui si è scelto di pranzare.

Anche in questo caso si usa una tecnologia altrettanto potente e simile al caso precedente. La domanda in questo caso è: serve davvero a qualcuno?
Perché una persona che sceglie di fare un pic nic, all’insegna della natura, potrebbe avere voglia di hamburger e patatine? L’idea più attendibile è che sia solo l’ennesima trovata pubblicitaria, ma in questo mondo di innovazione e tentata innovazione tutto è possibile.
Il che introduce il discorso che vorrei fare oggi.

Che si inventano per fare più soldi!

Dal punto di vista dell’uomo comune, inteso qui come qualcuno che senza interesse ascolta e ragiona su notizie di questo tipo, ogni nuova idea commerciale, seppure curiosa e inaspettata, passa sotto la lente del “che si inventano per fare più soldi”.

Chi invece ha dimestichezza con il mondo del business sa invece che si tratta proprio di questo: fare più soldi, rimanere sul mercato.
Problema e missione che possiamo tradurre con due parole: crescita e innovazione. Il rapporto però che intercorre tra i due termini non è sempre chiaro, a volte rischia di snaturare la missione stessa di un’azienda.
Parafrasando quanto Pasolini diceva parlando della differenza tra progresso e sviluppo, e volendo semplificare, per crescita dovremmo iniziare a ragionare in termini di aumento di profitti, sostenibilità e futuribilità; per innovazione dobbiamo accettare che si tratti di ogni modifica allo status quo che porti una miglioria o una sostanziale differenza rispetto al passato.

Da qui ne consegue, per quanto possa sembrare oltraggioso, che l’innovazione di per sé non è un qualcosa di così lodevole né da cercare con così tanta insistenza.
Alla fine, si tratta di metterci d’accordo sulle parole o di non dare troppo peso alle parole e di comprendere la differenza tra un’innovazione efficace (che funziona perché genera un impatto (nella vita delle persone) e una fine a se stessa, della quale cioè nessuna sentiva la mancanza o avvertirà gli effetti. Un discorso che, guardando la realtà imprenditoriale, è tutt’altro che teorico. È, purtroppo, storia di tutti i giorni.

Dalla trappola del prodotto a quella dell’Innovazione e della tecnologia

Analizzando l’ultimo ventennio di storia economica e imprenditoriale, nel mondo così come in Italia, uno snodo centrale lo si può trovare nel fallimento dell’idea di puntare tutto sul prodotto. In una società con informazioni sempre perfettamente disponibili, globale, veloce e digitale, il punto focale si è ormai trasferito nelle esperienze. Esperienze che non sono da intendersi come fantasmagoriche situazioni offerte al cliente (per intenderci: niente di fantascientifico ed esotico!). Per esperienze bisogna intendere più realisticamente il modo in cui il valore viene creato, diffuso e percepito; il modo in cui il cliente viene o non viene messo al centro di un’idea imprenditoriale.

Per averne la prova basti pensare a quella che viene definita “disruption”, termine usato più per impressionare che calato nella realtà di tutti i giorni. Le imprese che vincono il mercato, creando fratture e problemi a storici operatori di questo o quel settore, definite anche come aziende “insurgent” sono tutte caratterizzate da una rispondenza altissima a quelli che sono problemi e desideri dei clienti; intesi sia come oggetto (prodotto) ma soprattutto in termini di modo di utilizzo (modello di business).
Airnb, Netflix, Uber, Amazon, vanno in questa direzione.

Volendo però individuare un vero fattore comune e di successo, questo è da rintracciarsi in un approccio votato alla sperimentazione e alla prototipazione. Rispetto ad aziende tradizionali e a coloro che continuano ad affrontare un nuovo mercato alla vecchia maniera, le aziende “insurgent” sanno che i Business plan sono fatti per fallire di fronte al mercato.

Un ottimo esempio viene da un esercizio tanto divertente quanto stimolante che probabilmente conoscete o nel quale vi sarete cimentati diverse volte: il Marshmallow Challenge. Scopo di questo esercizio è costruire la più alta struttura autoportante in 18 minuti utilizzando i seguenti materiali: 20 spaghetti, 1 metro di nastro adesivo, 1 metro di spago, 1 marshmallow.

Ora, analizzando i risultati dei partecipanti, si possono notare alcune grandi differenze: alcuni dedicano grande tempo alla fase di analisi e progettazione teorica e procedono con il piano che hanno individuato, teoricamente, come migliore. Altri iniziano invece lanciandosi nella realizzazione e dedicano quasi tutto il tempo alla fase di prototipazione e validazione. Statisticamente, e per esperienza, i secondi risultano essere i più performanti.

 

Riportandolo nel nostro discorso aziendale, il secondo approccio è lo stesso di quanto avviene con qualsiasi progetto di tipo imprenditoriale: I clienti hanno il problema che vuoi risolvere? I clienti sono disposti a pagare per risolverlo? Sei davvero in grado di risolvere il problema meglio degli altri? Ogni qual volta si agisce in modo diverso, concentrandosi sul prodotto e sulla propria intuizione, si incappa in una serie di problemi e trappole che, come il classico cane che si morde la coda, finiscono per diventare irrisolvibili.

Le trappole della crescita

Semplifico e sintetizzo alcune delle situazioni che possono intrappolare la crescita ogni qual volta il cliente (il mercato) viene ignorato o relegato ad attore secondario.

Il problema del piccolo principe

Una delle scene più famose e commoventi del Piccolo Principe, il racconto di Antoine de Saint-Exupéry, è quando il bambino disegna un boa che ha inghiottito un elefante e, facendolo vedere ai presenti, tutti immaginano sia un cappello e frustrano le sue ambizioni artistiche.

Fuor di metafora è una scena che si presenta molte volte nel campo imprenditoriale. Il valore, la soluzione, non viene percepita e ci si sforza a suon di comunicazione, pubblicità, abbellimenti del prodotto, a fare breccia nel mercato. Può succedere all’avvio di un business così come quando, dopo un successo più o meno duraturo, iniziano ad esserci problemi di crescita e stagnazione.
Mentre però i costi di tali azioni sono certi, quantificabili e spesso esosi, i risultati sono tutt’altro che scontati o soddisfacenti.

È ancora un caso in cui sarebbe meglio fermarsi e chiedersi:
Sto parlando alle persone giuste?
È veramente aumentare la qualità la strada giusta per farmi riconoscere il giusto prezzo?

Il dilemma di Zenone

Anni fa abbiamo ricevuto una richiesta particolare: un nostro cliente ci chiese di incontrare un suo amico imprenditore. Aveva avuto un’intuizione, ci spiegò, quella di portare il mercato delle TV a un livello più alto, proporre prodotti di qualità eccelsa e incredibilmente tecnologici a un segmento di clientela con una capacità di spesa altissima. Detta così sembra un’idea ottima, no? Quando lo abbiamo incontrato il suo entusiasmo era davvero contagioso, malgrado poi non ci sia stato modo di lavorare insieme. Grazie alla sua passione e dedizione, però, riuscì a trasmettere la sua visione a soci e investitori, e iniziò a dedicarsi anima e corpo al suo progetto. Per reinventare il prodotto e portarlo al livello che lui immaginava servivano grandi risorse e una fase di progettazione accurata: per questo creò un team di tecnici formato da persone altamente qualificate, che si mise al lavoro per anni per progettare la TV che avrebbe lasciato tutti a bocca aperta. Finita la fase di ricerca e sviluppo, il nostro imprenditore poteva ritenersi quasi soddisfatto. Quasi, perché anche il design aveva bisogno di essere sbalorditivo, ed era certo che il suo team fosse capace di realizzare cose magnifiche se stimolato nel modo giusto. Inutile dire che, mentre il design veniva rivisto, era uscita l’ennesima nuova tecnologia da integrare, che avrebbe richiesto altro tempo al team di ingegneri. Andò avanti così sino a quando non fu chiaro che non ci sarebbe stato modo di stare dietro alla tecnologia e l’azienda dichiarò fallimento dopo che l’uscita del prodotto era stata annunciata dai media e dopo aver già iniziato a costruire persino delle presenze sui social network.

Nota: abbiamo raccontato questa storia in “Business Design per le Pmi”, dove puoi trovare un discorso ancora più approfondito sui modelli di business e una crescita sostenibile.

Anche in questa storia il grande assente è il cliente: il prodotto nasce dalla visione dell’imprenditore, ha caratteristiche tecniche da lui stabilite e si basa in modo diretto sulle tecnologie disponibili.
E se il cliente avesse desiderato caratteristiche diverse? E se non avesse trovato attraente il rapporto qualità-prezzo? E se, semplicemente, si fosse accontentato di molto meno?

Nel paradosso di Zenone in cui Achille non riesce mai a raggiungere la tartaruga, puoi comprendere che ci troviamo davanti a una situazione simile: l’imprenditore lancerà il suo prodotto solo quando avrà raggiunto il massimo livello tecnologico ma, mentre il team lavora, la tecnologia continua ad andare avanti e si rende di fatto irraggiungibile.

Il rischio di (emulare) Steve Jobs

Situazioni come quelle viste sin qui, nascono soprattutto da un’idea errata di innovazione, molto più simile alla genialità e alla genialità sregolata. Un modello, sbagliato, in questo senso potrebbe essere Steve Jobs. Jobs risaputamene era il tipo di imprenditore visionario che riteneva che i clienti non sanno cosa vogliono sino a quando qualcuno non glielo offre, e dunque ogni ragionamento sulle esigenze e i desideri del cliente equivale a una gran perdita di tempo. In un’intervista del 1985 su Playboy , disse: “Abbiamo costruito il Mac per noi stessi. Non abbiamo intenzione di uscire e fare ricerche di mercato “.

Per quanto possa apparire intrigante è però una considerazione molto pericolosa; specie se non si è Steve Jobs e non si dispone del team, dei fondi e della tecnologia da lui posseduta.
Una analogia provocatoria e calzante, proposta tempo fa da Chunka Mui, dalle pagine di Forbes, chiamava in causa Tiger Woods: “molti si sono lasciati ispirare dal suo gioco, dal suo carisma e dai suoi abiti e strumenti firmati Nike. Molti lo hanno emulato ma ben pochi sono diventati per questo giocatori migliori.”

Il rischio di essere straordinari

Continuando il discorso, un grande rischio è quello legato alla straordinarietà. L’idea di Mucca Viola, proposta da Seth Godin nell’omonimo e celebre libro, rischia molte volte di trasformarsi in un doloroso boomerang.
Quello che può sfuggire, sedotti dall’idea di essere o diventare straordinari, è che il business poggia invece il suo successo su un principio di ordinarietà: trova qualcosa (problema) che si presenti in modo omogeneo in un determinato gruppo, quantitativamente sufficiente, e offri una soluzione regolare. Serve ordinarietà anche per essere straordinari!

Questa è la grande differenza che passa tra genialità e innovazione (qui intesa come innovazione vera ed efficace). Lasciamoci ispirare dal simbolo per eccellenza, per una volta italiano: Leonardo Da Vinci.

Nella lettera scritta al Duca di Milano, Ludovico il Moro, considerata da molti uno dei primi e più efficaci curriculum vitae della storia, possiamo ritrovare in maniera eccezionale i requisiti di un Business straordinario ma basato sull’ordinarietà e sul cliente.
Ne riporto un breve passaggio iniziale, da notare come si rivolga a un segmento di mercato ben preciso (settore bellico) e conosca perfettamente il pain del suo interlocutore.

“Avendo constatato che tutti quelli che affermano di essere inventori di strumenti bellici innovativi in realtà non hanno creato niente di nuovo, rivelerò a Vostra Eccellenza i miei segreti in questo campo, e li metterò in pratica quando sarà necessario. Sono in grado di creare ponti, robusti ma maneggevoli, sia per attaccare i nemici che per sfuggirgli; e ponti da usare in battaglia, in grado di resistere al fuoco, facili da montare e smontare; e so come bruciare quelli dei nemici…”

Dalla commodity alla “brace”

Su un piano più concreto e attuale, quello che ogni aspirante imprenditore può imparare da libri e ormai articoli di blog, e che gli imprenditori conoscono molto bene è la cosiddetta trappola del prezzo o guerra del prezzo.

Nel tentativo di conquistare il cliente, il prezzo è sempre stato un’arma apparentemente veloce ed efficace. Utilizzata per conquistare mercato, per inserirsi in un nuovo mercato o per resistere all’avanzare di nuovi competitor. Quello che però ben presto diventa è un indebolimento reciproco o, in mancanza di un forte posizionamento sul mercato, la via più veloce per il fallimento.
Quello che succede, agendo sul prezzo, è una crescita non sostenibile, un a volte illusorio aumento del fatturato (dovuto alla spinta promozionale) ma un continuo e inevitabile calo dei margini, mentre i costi invece rimangono tali se non più alti a causa di una produzione e vendita che si spinge verso l’alto. Ancora una volta: un cane che si morde la coda.

Mi sembra superfluo insistere su queste dinamiche, tanto dovrebbe essere chiaro il rischio di diventare una commodity. Quello che però è interessante, un vero rischio di questi tempi, è una strategia per certi versi simile.
Anziché lavorare sul prezzo, molti imprenditori tendono a migliorare continuamente il proprio prodotto: features, abbellimenti, varianti, colori. Tutte azioni che sembrano dire al cliente “Ok, costo come o più di altri però ho anche questo, questo e quest’altro”.

Il rischio è almeno triplice.
1) Un inutile costo continuo dato dal miglioramento di un prodotto che non farà breccia comunque nel mercato. Quasi sempre funzioni supplementari e abbellimenti non rispondono a reali esigenze, non sono problemi sentiti e non sono dunque soluzioni percepite. È più un costoso rumore…
2) In questo caso non ci si ripara dall’effetto tipico della guerra dei prezzi. Così come con gli sconti, anche in questo caso i competitor potranno adottare la medesima politica: aggiungere, colorare, abbellire. E questo porterà a un continuo indebolimento del fatturato in termini di margini.
3) Si passerà dalla padella alla brace, diventando schiavi di un inutile innovazione. Inutile dire che spesso sono operazioni che dal punto di vista economico sono tecnicamente insostenibili.

Un vecchio ed efficace paradigma per la crescita

In questi giorni rileggevo un classico della letteratura imprenditoriale, “Strategia di crescita rapida”, di Mack Hanan; un libro del 1991! E riflettevo sul fatto di come un libro di trent’anni fa potesse essere così incredibilmente attuale e idee attuali possano invece ignorare platealmente i segnali che continuamente ci offre il mercato.
Alcuni punti che propongo qui di seguito sono gli stessi che portiamo avanti da anni con Beople e con il Business Design.

Partire dal cliente, anzi partire dai Migliori Clienti

Il caso visto prima della “tv del futuro” oltre che una irrealistica corsa contro la tecnologia (il dilemma di Zenone come abbiamo fatto notare) denota un diffuso problema: l’assenza del cliente da ogni dinamica di innovazione e crescita. 
A dispetto di intuizione, genialità e dell’incredibile acume di Steve Jobs, bisogna concordare con Steve Blank imprenditore seriale della Silicon Valley e già docente alla U.C. Berkeley e a Stanford, quando nel suo libro “The Startup Owner’s Manual” affermava con forza: nessun business plan sopravvive al contatto con i clienti.

È un concetto che può sembrare banale, vecchio e scontato ma ogni giorno ci rendiamo conto di come la segmentazione del mercato (comprendere chi sono i tuoi clienti e individuare elementi di ordinarietà, tracciare cioè verosimili ed efficaci personas) sia di per sé un vantaggio competitivo, in grado anche in breve tempo di fare cambiare marcia a ogni business.

Il vero punto qui è però di altra natura: non tutti i clienti sono uguali. Aziende che si trovano nella situazione di innovare, al di là sia una necessità sentita o una volontà dichiarata, sono solitamente aziende che posseggono già una mole di informazioni preziose e un parco clienti che rappresenta più che un asset strategico.

Non si tratta di avere persone già disposte a comprare o alle quali tentare di vendere qualcosa in più o di nuovo. Si tratta invece di sfruttare i “migliori clienti” per comprendere in che direzione sia profittevole andare.

E non è questo un discorso teorico. Non è l’ennesimo slogan per ricordare che il cliente dev’essere al centro… è una questione economica.
Il principio di Pareto – il 20% delle cause provoca l’80% degli effetti – funziona perfettamente anche nel business: statisticamente, tranne alcuni casi di mass market, il 20% dei clienti è quello più profittevole, che percepisce il valore (o sente la soluzione), riconosce il valore (ha la volontà di pagarlo) e ne ha i mezzi per pagarlo. L’80% è composto invece da persone che gravitano per curiosità, necessità o spinti dalle promozioni ma che, almeno nel lungo periodo, non si trasformeranno né in clienti impegnati (passando nel 20% di prima), né fidelizzati. Solitamente, seppur generalizzando e in parte provocatoriamente, l’80% è quel genere di clienti per il quale litigano le aziende a suon di promozioni e guerra del prezzo.

Il 20% dei clienti profittevoli è soprattutto un segmento perfettamente individuabile. Potremmo definirli “early adopter” ma ancora meglio possiamo individuarli studiando la base clienti di ogni impresa – e ogni impresa conosce (o dovrebbe conoscere) meglio di ogni statistica i propri clienti.

Ripetersi almeno una volta al giorno: “Una buona idea non dev’essere un dogma”

Con questo lungo articolo, stimolato come detto da una lettura vecchia di trent’anni, non intendo certamente rivoluzionare il modo di fare business né suggerire un modello infallibile per la crescita. Anzi, quello che vorrei trasferire è di rifuggire da formule confezionate, miti e altre tendenze che oggi possono apparire cool ma si traducono più in costi certi e fallimenti.
Mi piace quanto ha detto di recente Greg Bernarda, esperto di modelli di business e co-autore di Value Proposition Designuna buona idea non deve diventare un dogma.

Vale per il Canvas, per quanto orgogliosi di dieci anni di lavoro e diffusione in Italia. Vale per la tecnologia, per quanto tutto oggi sembra basarsi su chip e app. Vale per l’innovazione, per quanto da un punto di vista etimologico sembri essere sempre la soluzione.
Vale anche quando diciamo “partire dal cliente”… per quanto lo abbia ripetuto più volte anche in questo articolo.
In fondo non c’è necessariamente bisogno di partire dal cliente. Quel che conta è che tutto si riconduca al cliente. Perché se il cliente è il grande assente, non c’è summit sulla crescita e sull’innovazione che ci possa salvare.

 

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